Collezioni tutelate come beni culturali

6 Ottobre 2020

Le collezioni tutelate come beni culturali. La biblioteca “lunatica” di Umberto Eco e le “baruffe chioggiotte” a Palazzo Vianelli

 

La famiglia di Umberto Eco ha proposto ricorso al TAR della Lombardia contro il provvedimento di vincolo apposto dalla Soprintendenza Archivistica e Libraria sull’immenso (sia nella quantità sia nella sostanza) patrimonio librario e archivistico raccolto dal semiologo nel corso della sua vita. Provvedimento che, a quanto è dato sapere, dichiara la collezione di Eco come di “rilevante interesse culturale”, al fine di impedirne lo smembramento.

La biblioteca in particolare è composta di due corpi differenti: uno di libri moderni (si tratta di circa 30.000 volumi) e uno di libri antichi, più piccolo (1.200 opere) ma estremamente prezioso, che lo scrittore aveva battezzato con il nome di “Biblioteca Semiologica Curiosa, Lunatica, Magica et Pneumatica”. La volontà della famiglia sarebbe (vediamo subito perché il condizionale) quella che la parte antica andasse alla biblioteca Braidense (dove, accanto all’osservatorio astronomico, da cui la luna si vede magicamente, starebbe peraltro davvero a pennello), mentre la parte moderna andasse all’Università di Bologna, dove il professore ha insegnato dal 1971.

Senonché è sopraggiunto il provvedimento di cui sopra, con cui la Soprintendenza Lombarda ha inteso vincolare la biblioteca (e l’archivio) come bene nel suo complesso, così presumibilmente al fine di impedirne lo smembramento in due parti secondo la volontà della famiglia. Purtroppo non ho a disposizione il provvedimento di vincolo. Su autorevoli fonti ho letto però che “il principio che regge la decisione è l’inscindibilità del complesso documentale e bibliografico alla luce della personalità stessa di Eco, la cui attività di scrittore si connette strettamente con quella dello studioso senza soluzione di continuità: autore per eccellenza metaletterato e postmoderno i cui romanzi si nutrono della biblioteca, degli studi del medievalista e del semiologo, della passione del bibliofilo” (Biblioteca di Eco, interviene lo Stato, di Paolo di Stefano, su Corriere della Sera Cultura, 18 giugno 2018).

Perché lo Stato ha potuto intervenire con questo provvedimento di vincolo e impedire che la biblioteca venga separata in due parti?

L’art. 10, comma 1, lett. e) del Codice dei Beni Culturali stabilisce che sono beni culturali, quando sia intervenuta la dichiarazione di cui al successivo art. 13, “le collezioni o serie di oggetti che … per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, ovvero per rilevanza artistica, storica, archeologica, numismatica o etnoantropologica rivestano come complesso un eccezionale interesse”. Deduco sia stata questa la norma applicata dalla Soprintendenza e non quella della lett. d) dello stesso artico, che si riferisce invece alle “raccolte librarie”: da quanto emerge dall’articolo citato, la decisione sembra fare riferimento infatti non solo alla parte bibliografica ma anche a quella documentale (possiamo pensare alla corrispondenza epistolare intrattenuta dal semiologo con amici e colleghi, agli appunti, o a immagini fotografiche).

La legge stabilisce dunque che può essere considerato bene culturale anche un insieme o una serie di beni considerati nel loro complesso, purché tale universalità presenti un interesse culturale “eccezionale”.

Ma quando siamo in presenza di una collezione e che cosa si intende per interesse “eccezionale” ai sensi della legge?

Facendola (davvero) molto semplice: il Codice dei Beni Culturali, all’art. 10, che è la norma volta all’individuazione dei beni, pone una macro distinzione tra: beni (di cui al comma 1) che godono di una “presunzione di culturalità” e necessitano per la tutela di un interesse culturale c.d. “semplice” (si tratta delle “cose mobili e immobili … che presentano interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico” di proprietà pubblica o di persone giuridiche private senza scopo di lucro), e beni (di cui al comma 3) che sono tali esclusivamente a seguito della dichiarazione da parte del Ministero di cui all’art. 13 e necessitano di un interesse culturale c.d. “qualificato” (comma 3), che può essere “particolarmente importante”, come nel caso degli archivi, o addirittura “eccezionale”, come nel caso appunto delle collezioni (i beni per cui è richiesto un interesse qualificato sono per lo più quelli di proprietà di privati, ma non sempre è così, come nel caso delle collezioni, che possono appartenere a chiunque).

Si richiede che il bene possegga un interesse qualificato, “eccezionale”, perché una volta che una collezione viene dichiarata “bene culturale” e raggiunta dalla c.d. “notifica” ex art. 15, il proprietario di quella collezione vede restringere drasticamente il suo diritto di proprietà. Esempio? Può smembrarla esclusivamente a seguito di autorizzazione ministeriale [art. 21, comma 1, lett. c) del Codice dei Beni Culturali].

Il termine “collezione” è estremamente ampio e può comprendere un insieme, a esempio, di opere d’arte, di reperti archeologici, di monete, di arredi, di pellicole cinematografiche, ma anche una mescolanza dei beni appena elencati.

La peculiarità della norma sta nel fatto che l’interesse alla tutela non deriva dal valore culturale di ogni singolo oggetto (che, come stiamo per vedere, può anche essere di per sé poco significativo), né dalla mera sommatoria degli oggetti, ma dal valore che riveste la raccolta o collezione nel suo insieme, come universalità di cose.

Che cosa si intende per “collezioni o serie di oggetti” di “eccezionale interesse culturale” ai sensi dell’art. 10 comma 3 del Codice dei Beni Culturali?

Si afferma innanzitutto in giurisprudenza che il valore della collezione “trascende il valore intrinseco dei singoli ‘pezzi’ dei quali sono composte” e che “non è richiesto che le opere da vincolare … appartengano a raccolte di qualità omogenee, che tutte siano attribuite ad artisti di chiara fama o siano prodotti di scuole di fama consolidata”. Le pronunce stabiliscono poi che la norma “non si riferisce alle raccolte di tipo museale o aventi scopi espositivi, ma può concernere pure alla serie di beni, o insiemi o gruppi di cose tra loro collegate da un elemento storico o artistico comune, oltreché connotate da criteri di omogeneità, di affinità o d’identità di destinazione funzionale (quand’anche non si rinvenga prima face un ordinato e predefinito disegno organizzativo) e che, considerate nel loro complesso, esprimano rilevanti interessi culturali, storici o artistici” (Cons. Stato, 29 novembre 2017, n. 5583). O ancora che ricorre la figura della collezione “quando i beni rivestono carattere di omogeneità e affinità, ovvero presentano un comune contenuto tematico la cui lettura è consentita solo dalla conservazione del carattere unitario del complesso di cose; detti beni poi devono essere conservati in un unico luogo e devono essere collegati tra loro sotto il profilo storico e artistico” (Tar Lazio 8 ottobre 2008, n. 8824).

L’applicazione di questi principi implica una buona dose di soggettività di giudizio e non è quindi agevole sussumere il caso concreto al principio generale.

Per esempio, la qualifica di bene culturale della collezione di quadri contenuta all’interno di Palazzo Vianelli a Chioggia ha avuto una storia complicata.

La Soprintendenza aveva sottoposto a vincolo detta collezione composta di 185 opere in quanto, sebbene la qualità dei dipinti non fosse omogenea “la raccolta si qualifica[va] come unica e rara testimonianza del gusto e del collezionismo privato di fine settecento a Chioggia”. Successivamente, il Tar del Lazio aveva annullato il provvedimento dal momento che, a suo parare, sarebbero sussistiti “soltanto il requisito soggettivo (la titolarità dei beni) e quello della localizzazione (collocazione nel Palazzo Vianelli), insufficienti da soli a qualificare le opere come facenti parte di una collezione” (Tar Lazio, cit.).

Il Consiglio di Stato, a suo volta adito per stabilire le sorti della collezione, ha infine definitivamente stabilito che la ragione del vincolo non andava individuata nel profilo soggettivo del collezionista ma faceva invece riferimento “alla dimensione oggettiva e ambientale della collezione, vale a dire alla capacità testimoniale che la raccolta ha di una certa temperie culturale chioggiotta, e alla rilevanza culturale che rispetto a quella rappresenta l’insieme” e che “le ragioni del vincolo risied[evano] nel valore d’insieme che ha la capacità espressiva di quel gusto e di quella tradizione culturale, piuttosto che nel mero collegamento con quella figura [del collezionista: n.d.r.], per quanto significativa e preminente ne sia stata l’attività di acquisizione”, affermando così la legittimità del vincolo stesso.

La stessa giurisprudenza è chiara infatti nell’affermare che i provvedimenti di vincolo sono da un lato “espressione di una valutazione tecnica e scientifica molto complessa” (i provvedimenti di vincolo sono infatti sempre accompagnati da una relazione storico-artistica) e dall’altro connotati da “profili di ampia discrezionalità”.

Nel caso della collezione di Umberto Eco, come abbiamo detto, l’eccezionale interesse culturale della raccolta libraria è stata individuata dalla Soprintendenza “alla luce della personalità stessa di Eco”, al fatto che la sua attività di scrittore si connettesse inscindibilmente a quella di studioso, “i cui romanzi si nutrono della biblioteca” (il riferimento al Nome della Rosa è evidente). Ora il TAR, davanti a cui gli eredi hanno impugnato il decreto di vincolo, potrebbe confermare o annullare il decreto di vincolo. Ma l’esito lo sapremo solo tra qualche anno.

 

Articolo pubblicato su "Artribune" il 16.05.2019

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