Come noto, le criptovalute sono definite come rappresentazioni digitali di valore, non emesse da una banca centrale o da un’Autorità pubblica e non collegate necessariamente a una valuta avente corso legale. Nonostante siano ormai utilizzate come mezzo di scambio, non è ancora chiaro se possano essere considerate come moneta a tutti gli effetti. Per potersi qualificare come tali, infatti, le criptovalute dovrebbero svolgere tutte le funzioni economiche comunemente attribuite alle valute governative, ovverosia: Alcune tra le criptovalute più conosciute svolgono già una parte di queste funzioni: Bitcoin, per esempio, viene efficacemente utilizzata come riserva di valore – tanto che alcuni operatori del settore la definiscono come il nuovo “oro digitale”; Ethereum[1], dal canto suo, può essere considerata come la versione digitale del petrolio, potendo essere utilizzata sia come riserva di valore merce, sia come asset produttivo. Ciò che ancora manca, però, a tali valute digitali è l’agire come unità di conto, posto che il loro utilizzo come misura del valore delle transazioni economiche non è ancora frequente. Nonostante ciò, non può essere trascurato che buona parte dell’opinione pubblica intenda oggi le criptovalute al pari di una moneta: si pensi solo al crescente numero di mercati online che accettano dette valute come corrispettivo per la cessione di beni o la prestazione di servizi. Per questa ragione, la Corte di Giustizia dell’Unione europea – nel pronunciarsi su una controversia avente ad oggetto la fiscalità indiretta delle criptovalute[2] – ha associato le operazioni in valuta digitale alle operazioni relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio, di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2006/112/CE (“Direttiva IVA”). La nostra Agenzia delle Entrate si è allineata a tale interpretazione del giudice europeo affermando che gli stessi principi fissati in materia IVA devono trovare attuazione anche per quanto riguarda le imposte dirette[3]. Alla luce di ciò, attualmente l’acquisto e la vendita di criptovalute effettuate fuori dall’attività di impresa vengono qualificati dall’Amministrazione finanziaria italiana come “operazioni a pronti”, dalle quali si realizzano capital gain derivanti da valute estere[4]. Di conseguenza, ai fini delle imposte dirette la plusvalenza realizzata attraverso il prelievo o la cessione di una valuta virtuale si qualifica come reddito diverso, ai sensi dell’articolo 67, comma 1, lettera c-ter), del TUIR, e per le persone fisiche che agiscono al di fuori dell’attività di impresa, detta plusvalenza viene tassata ai sensi del successivo comma 1-ter del TUIR. Pertanto, si avrà l’applicazione di una ritenuta a titolo di imposta con aliquota al 26% solo se il contribuente ne detiene un ammontare superiore a euro 51.645,69[5] per almeno sette giorni continui nel periodo di imposta in cui la plusvalenza stessa è stata realizzata, valutato secondo il cambio applicabile al 1° gennaio di ogni anno e con i criteri stabiliti dall’articolo 68, comma 6, del TUIR. Ciò premesso, si rileva che ad oggi restano ancora senza risposta alcune questioni di non poco conto, fra cui quella relativa alla territorialità di dette plusvalenze. Difatti, se è vero che le criptovalute sono classificate quali valute estere, al fine di determinare la territorialità dei relativi redditi è necessario ricorrere alla disposizione di cui all’articolo 23, comma 1, lettera f), n. 2, del TUIR in combinato disposto con l’articolo 165, comma 2, del TUIR – in forza del quale “[i] redditi si considerano prodotti all’estero sulla base di criteri reciproci a quelli previsti dall’articolo 23 per individuare quelli prodotti nel territorio dello Stato”. Queste disposizioni assumono particolare interesse se lette in relazione al regime agevolativo opzionale di cui all’articolo 24-bis del TUIR. I soggetti c.d. “neo-residenti” beneficiano, di fatto, di un sistema di imposizione diretta differenziato: i redditi di fonte italiana vengono assoggettati a imposizione ordinaria, mentre per i redditi di fonte estera è prevista un’imposizione sostitutiva forfetaria pari a euro 100.000 euro per singolo periodo di imposta. In tale circostanza, appare dunque essenziale definire il criterio di individuazione della territorialità delle plusvalenze da cessione di criptovalute, atteso che, in caso di plusvalenza di fonte estera, tale provento sarebbe assorbito integralmente dell’imposizione sostitutiva forfettaria. Per certi versi l’Italia – seguendo questa interpretazione – offrirebbe un’opportunità di risparmio d’imposta potenzialmente in grado di attrarre individui ad alto potenziale, in ragione della loro disponibilità di rilevanti capitali e di risorse finanziarie. Posto che, come detto, le valute digitali sono qualificate dall’Amministrazione come valute estere, per risolvere la questione bisogna fare riferimento al luogo in cui si trova il deposito o il conto bancario su cui sono custodite. Se questi si trovano in Italia, allora il reddito sarà di fonte italiana, altrimenti il reddito dovrà essere considerato di fonte estera. Come è risaputo, tuttavia, le criptovalute non vengono custodite né su depositi bancari, né su conti correnti, in quanto esse circolano al di fuori del circuito bancario, bensì vengono conservate nei c.d. “wallet”, o portafogli elettronici. Un wallet è, in estrema sintesi, un software che tiene traccia delle chiavi segrete utilizzate per firmare digitalmente le transazioni di criptovaluta per i registri distribuiti. Pertanto, il luogo in cui si trovano le criptovalute deve essere determinato sulla base della dimensione spaziale del wallet nel momento in cui viene realizzata la plusvalenza. Se questo è fisico, si guarda alla giurisdizione in cui il wallet è fisicamente conservato; se, invece, è online, si deve fare affidamento alla giurisdizione in cui è situato l’intermediario che mette a disposizione il portafoglio elettronico, se presente. La materia è nel complesso certamente fluida e, considerata la grande accelerazione che sta interessando il fenomeno delle criptovalute, appare necessario che sia approntato un definito e certo inquadramento fiscale della materia, per consentire ai contribuenti di adempiere con certezza alle obbligazioni tributarie che possono sorgere a fronte delle operazioni compiute, nonché per scongiurare eventuali contestazioni da parte dell’Amministrazione finanziaria. [1] Occorre qui precisare che il termine “Ethereum” viene ormai impropriamente utilizzato dai più per qualificare sia la piattaforma digitale che consente di costruire un’ampia gamma di applicazioni decentralizzate, sia la criptovaluta utilizzata per completare le transazioni su detta piattaforma (che, in realtà, prenderebbe il nome di “Ether”). [2] Cfr. Corte di Giustizia dell’Unione europea, sentenza 22 ottobre 2015, causa C-264/14. [3] Cfr. Agenzia delle Entrate, risoluzione 2 giugno 2016, n. 72/E. [4] L’Agenzia delle Entrate, Direzione Regione Lombardia, nella risposta a interpello 22 gennaio 2018, n. 956-39, ha infatti riconosciuto alle criptovalute la natura di moneta estera. [5] Che rappresentano l’equivalente di 100 milioni di lire. Così C.M. 24 giugno 1998, n. 165/E.