Con la risposta a interpello n. 788, pubblicata in data 24 novembre 2021, l’Agenzia delle entrate si occupa della questione relativa alla detenzione, da parte di persone fisiche residenti, di criptovalute all’interno di digital wallet e il relativo possesso di chiavi private, individuando gli obblighi di monitoraggio fiscale che ne derivano. L’istanza di interpello viene proposta da un soggetto, residente fiscalmente in Italia, che chiede chiarimenti in ordine al trattamento fiscale e all’obbligo dichiarativo delle predette “valute virtuali”, nel caso di detenzione diretta delle stesse all’interno di una chiave privata. L’istante precisa di detenere le criptovalute da più di cinque anni, senza che le stesse siano mai state oggetto di cessione o di conversione in Euro. Il contribuente chiarisce, inoltre, di aver acquistato le ridette criptovalute a titolo oneroso: alcune valute virtuali sono detenute presso un exchange estero, mentre le restanti criptovalute sono custodite all’interno di un c.d. “hardware wallet” e di un c.d. “desktop wallet” con disponibilità diretta di chiave privata. L’Agenzia delle entrate, nel fornire i relativi chiarimenti al contribuente, ribadisce alcune delle posizioni già espresse nei (pochi) documenti di prassi fin qui pubblicati sulla tematica in oggetto. In primo luogo, l’Ufficio delinea la natura di detti beni immateriali. Punto di partenza, in tal senso, è la risoluzione n. 72 del 2 settembre 2016, che rappresenta il più importante documento di prassi pubblicato finora dall’Agenzia sul tema delle criptovalute. Secondo tale risoluzione le criptovalute sono valute virtuali utilizzate come “moneta” alternativa a quella tradizionale avente corso legale. Sulla base di detto presupposto, l’Agenzia osserva che le valute virtuali sono “stringhe di codici digitali opportunamente criptati, generati in via informatica mediante complessi algoritmi matematici”. Partendo da tali considerazioni, l’Ufficio rileva che le predette ”valute” hanno natura esclusivamente “digitale”, dal momento che vengono create, memorizzate e utilizzate tramite dispositivi elettronici (come, per esempio, pc e smartphone) e sono conservate in portafogli elettronici chiamati wallet. Tali wallet vengono in genere classificati in base alla tecnologia del mezzo di conservazione (paper, hardware, desktop, mobile, web), alla connettività alla rete dell’ambiente in cui sono archiviate le chiavi (hot wallet, cold wallet), nonché al controllo o meno della chiave privata da parte dell’utente (custodial/non custodial wallet). I wallet, in estrema sintesi, consistono in una copia di chiavi crittografiche di cui: Successivamente, preso atto dell’assenza di una disciplina civilistica in materia, per inquadrare giuridicamente tali assets l’Agenzia richiama nuovamente[1] la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 22 ottobre 2015, emessa nella causa C-264-14. Tale pronuncia ha assimilato le operazioni in valute virtuali a quelle ”relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio”, ex art. 135, par. 1, lett. e), della direttiva 2006/112/CE (c.d. “Direttiva IVA”). In conseguenza di tale qualificazione, l’Agenzia assume che, ai fini delle imposte dirette, per le persone fisiche che detengono valute virtuali al di fuori dell’attività d’impresa, gli eventuali redditi che emergono dalle operazioni con dette valute costituiscono redditi diversi di natura finanziaria, ex art. 67, c. 1, lett. c-ter), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Testo unico delle imposte sui redditi – “TUIR”). In tali circostanze, i relativi proventi vengono assoggettati a tassazione solo se le valute sono state detenute su conti correnti e depositi con giacenza media superiore, per almeno sette giorni lavorativi continui, a Euro 51.645,69 (“cento milioni di lire”), secondo quanto previsto dall’art. 67, c. 1-ter, del TUIR. Pertanto, a parere dell’Agenzia “le cessioni a termine di valute virtuali rilevano sempre fiscalmente, mentre le cessioni a pronti generalmente non danno origine a redditi imponibili mancando la finalità speculativa, salva l’ipotesi in cui la valuta ceduta derivi da portafogli elettronici (wallet), per i quali la giacenza media superi un controvalore di euro 51.645,69 per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta”. Sotto tale profilo, viene precisato (ed è un’importante precisazione per quanto qui rileva) che agli effetti della disposizione sopra menzionata, il prelievo dai wallet deve essere equiparato a una cessione a titolo oneroso. Per calcolare il valore in Euro della giacenza media in valuta virtuale, il contribuente può utilizzare il rapporto di cambio al 1° gennaio rilevato sul sito dove lo stesso ha acquistato la ridetta valuta virtuale o, in assenza, quello rilevato sul sito dove egli effettua la maggior parte delle operazioni. In virtù di quanto disposto dall’art. 67, c. 1-bis, del TUIR, per la determinazione delle eventuali plusvalenza/minusvalenze, devono considerarsi cedute per prime, sulla base del criterio “last in, first out” (“LIFO”), le valute acquistate in data più recente. Di conseguenza, per determinare la plusvalenza conseguente a prelievi da wallet che abbiano superato l’anzidetta giacenza media si deve utilizzare il costo d’acquisto assumendo, per l’appunto, cedute per prime le criptovalute acquisite in data più recente. Sul punto – e, a quanto ci consta, per la prima volta – l’Agenzia precisa poi che la giacenza media va verificata “rispetto all’insieme dei wallet detenuti dal contribuente, indipendentemente dalla tipologia dei wallet (paper, hardware, desktop, mobile, web)”. In tali circostanze, il reddito, se percepito da una persona fisica al di fuori dell’esercizio di un’attività d’impresa, deve essere assoggettato a imposizione sostitutiva con aliquota del 26%, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 21 novembre 1997, n. 461. A seguire, l’Agenzia esprime la sua posizione in merito agli obblighi di monitoraggio fiscale che derivano dalla detenzione delle criptovalute. Secondo l’Amministrazione finanziaria, richiamando la natura delle valute virtuali quali “valute estere”, l’obbligo di indicazione di tali assets nel quadro RW dovrebbe valere con riferimento a tutte le valute detenute dalla persona fisica, ossia “anche per quelle di cui [la stessa n.d.r.] detenga direttamente la chiave privata”. Viene infatti rilevato che tale obbligo sussiste “anche per le attività finanziarie estere detenute in Italia al di fuori del circuito degli intermediari residenti”, in quanto le stesse “costituiscono attività estere di natura finanziaria suscettibili di produrre redditi imponibili in Italia”. Anche per la compilazione del quadro RW, si chiarisce che il controvalore in Euro delle criptovalute, detenute al 31 dicembre del periodo di riferimento, deve essere determinato al cambio indicato a tale data sul sito ove il contribuente ha acquistato le criptovalute medesime. La posizione dell’Agenzia delle entrate nella risposta a interpello in commento si espone ad alcune critiche. In primis, non appare condivisibile l’equiparazione che fa l’Ufficio delle criptovalute alle valute estere. Sul punto, occorre ricordare che la sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 22 ottobre 2015, nella causa C-264/14 (c.d. “sentenza Hedqvist”) ha affermato che le valute virtuali sono qualcosa di diverso rispetto alle valute aventi corso legale, munite di capacità liberatoria. Inoltre, è lo stesso art. 2 del d.P.R. 31 marzo 1988, n. 148 (Testo unico delle norme di legge in materia valutaria) a sancire che per “valuta estera” debbano esclusivamente intendersi i “biglietti di banca e di Stato esteri aventi corso legale”. Pertanto, le criptovalute appaiono essere qualcosa di completamente differente rispetto alle valute estere, per come il legislatore ha inteso qualificarle. Dalla (discutibile) qualificazione giuridica delle criptovalute come valute estere, discende, a parere dell’Agenzia, l’obbligo di monitoraggio fiscale in tutti i casi di detenzione, tuttavia la territorialità delle valute, ai fini del d.l.n.167/1990, è di norma verificata in relazione al luogo in cui esse sono depositate ovvero in cui materialmente si trovano, e non in conseguenza del luogo di emissione o altri criteri. Da ultimo, occorre segnalare che l’Agenzia nel documento sostiene che “ai fini della eventuale tassazione del reddito diverso” occorrerebbe verificare sia “la conversione di una valuta virtuale con altra valuta virtuale”, sia la conversione di valute virtuali in Euro o altra valuta estera avente corso legale. L’Ufficio sembra, dunque, voler attribuire rilevanza fiscale anche all’operatività crypto-to-crypto. Tale posizione desta alcuni dubbi riguardo alla sua praticabilità in concreto, dal momento che molte criptovalute non hanno alcuna quotazione né in Dollari, né in Euro, In conclusione, l’interpretazione dell’Agenzia non sembra aver eliminato i molteplici dubbi che aleggiano intorno al tema delle criptovalute. Sotto tale punto di vista, non si può che concordare con quella parte della dottrina che auspica l’introduzione di una normativa tributaria ad hoc su dette crittoattività, che ne riconosca le peculiarità, e scongiuri il ricorso all’analogia. [1] Tale sentenza era stata già presa dall’Agenzia delle entrate come punto di riferimento per la qualificazione della natura delle operazioni in valute virtuali nella risoluzione n. 72/2016.