In un’ottica di pianificazione patrimoniale un ruolo importante ricopre la determinazione del costo fiscale delle partecipazioni ai fini della quantificazione di un’eventuale plusvalenza derivante dalla cessione della partecipazione ricevuta per successione e donazione.
L’art. 68 del Tuir, infatti, determina in modo differente il valore della partecipazione acquisita per successione o per donazione.
In particolare, nel caso di acquisto mortis causa ai fini della plusvalenza si assume come costo il valore definito o, in mancanza, quello dichiarato agli effetti dell’imposta di successione. Per le partecipazioni in società di capitali “non quotate” tale valore corrisponde al valore del patrimonio netto della società risultante dall’ultimo bilancio pubblicato antecedentemente all’apertura della successione.
Al suddetto criterio deve inoltre farsi riferimento anche qualora i titoli siano stati dichiarati ai fini dell’imposta di successione, nonostante l’imposta non sia in concreto dovuta perché la quota spettante a ciascun erede non eccede la franchigia, nonché nell’ipotesi in cui l’erede non abbia presentato la dichiarazione di successione.
Diversamente, nel caso di partecipazione ricevuta per successione in esenzione da imposta, ad esempio ai sensi dell’art. 3, co. 4-ter, del TUS il costo fiscalmente riconosciuto si determina in base al valore normale della partecipazione alla data di apertura della successione. Tale valore coincide con il prezzo mediamente praticato per beni della stessa specie in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione. Per valore normale si intende, quindi, il c.d. “valore economico della partecipazione”.
E’ di tutta evidenza che qualora il de cuius si sia avvalso delle normative che consentono una rideterminazione agevolata del costo d’acquisto delle partecipazioni, tali agevolazioni non comportino un beneficio in capo agli eredi in quanto come abbiamo visto, di regola, l’erede non subentra nella posizione fiscale del de cuius.
Nella prospettiva di una eventuale pianificazione patrimoniale si osserva che la trasmissione mortis causa della partecipazione in esenzione da imposta genera potenzialmente due benefici per l’erede, ciò in quanto da un lato l’acquisto avverrà senza applicazione della tassazione e dall’altro ai fini della determinazione del futuro eventuale capital gain si assumerà a riferimento il valore economico della partecipazione e non il valore contabile. Questo nell’ipotesi, di massima ricorrente, che il valore economico sia superiore a quello contabile.
Lo scenario muta radicalmente in caso di partecipazione ricevuta per donazione; in tale ambito il donatario assume sempre il costo fiscale della partecipazione in capo al donante, anche nel caso in cui la donazione avvenga in esenzione da imposta.
Da ciò deriva che se il donante ha rideterminato il costo d’acquisto della partecipazione, il valore rivalutato esplicherà i suoi effetti in capo al donatario.
Il donatario subentra nella posizione fiscale del donante e in caso di successiva cessione della partecipazione, nella determinazione del capital gain, avrà rilievo la scelta pregressa del dante causa di aderire a opzioni di rideterminazione a pagamento del valore fiscale della partecipazione.
Ciò premesso, e riassumendo, nel ricevere la partecipazione per successione, l’erede avrà generalmente convenienza nel ricevere la partecipazione in esenzione da imposta, e quindi nella misura in cui ricorreranno le condizioni di legge per godere di tale esenzione. Si beneficerà infatti di una partecipazione valutata in base al valore economico, senza aver subito alcun prelievo fiscale in termini di tributo successorio. Tuttavia l’imposta sostitutiva eventualmente versata dal de cuius in sede di rideterminazione andrà perduta.
Il trasferimento della partecipazione per donazione risulta, invece, conveniente per il donatario solo qualora il dante causa abbia effettuato la rideterminazione del costo d’acquisto; in caso contrario l’eventuale plusvalenza sarà sempre riferibile al costo originario della partecipazione che può essere anche di molto inferiore rispetto al valore attuale.
Si osserva che una soluzione alle problematiche relative alla determinazione del costo fiscale delle partecipazioni potrebbe essere individuata nel trust.
Il trustee, infatti, subentra in ogni caso nel costo fiscalmente riconosciuto in capo al disponente con riferimento ai beni vincolati in trust. Ne consegue che per costo fiscalmente riconosciuto dei beni conferiti in trust si assume il costo fiscalmente riconosciuto in capo al disponente. In tal caso, vale ancor più il principio che le clausole dell’atto istitutivo consentano al trustee di registrare i guadagni in capitale, quali le plusvalenze realizzate, fra le riserve di reddito che compongono il fondo in trust (eventualmente già tassate in capo al trust stesso se opaco).
Tale ricostruzione, condivisa dall’Agenzia delle Entrate (“AdE”) con circolare 48/2007, merita di essere riproposta ancora oggi e, ciò nonostante, la tematica non sia stata espressamente affrontata nella redazione della Bozza di Circolare sul Trust dell’11 agosto 2021.
La circostanza che l’orientamento giurisprudenziale consolidato e la prassi dell’AdE sono concordi nel propendere per la “tassazione in uscita” dei beni dal trust, non pare comportare alcuna conseguenza in ordine alla determinazione del costo fiscalmente riconosciuto dei beni coinvolti in un trust.
In un’ottica di coerenza del sistema fiscale, la logica dell’applicazione del costo fiscale del disponente ai beni costituti in trust trova la sua ragion d’essere nel principio della continuità dei valori fiscali che permea le regole dell’imposizione sul reddito e che quindi deve trovare necessariamente collocazione anche al caso di specie. Peraltro, laddove si intendesse determinare il costo dei beni in trust sulla base dei criteri del valore normale o del “costo zero” dei beni medesimi, ciò potrebbe comportare un salto o una duplicazione di imposizione, certamente in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 della Costituzione.