Il presente contributo prende le mosse dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 6146 del 2022 al fine di approfondire il tema dell’accettazione dell’eredità con beneficio di inventario in relazione alla stipula di una transazione avente ad oggetto i beni ereditari.
La vicenda processuale è improntata all’accertamento della decadenza dal beneficio di inventario degli eredi a seguito della transazione stipulata con un creditore del de cuius.
Nel dettaglio il creditore, un professionista che aveva svolto attività di consulenza in favore del de cuius, aveva introdotto, nei confronti del de cuius ancora in vita, un giudizio per il pagamento della parcella a lui spettante e lo aveva poi proseguito nei confronti degli eredi.
Gli eredi decidevano quindi di transigere la controversia per una somma inferiore rispetto alle pretese iniziali del creditore e provvedevano al pagamento della somma transatta con denaro proprio, senza tuttavia richiedere l’autorizzazione al giudice dell’eredità prevista in forza del disposto di cui all’art. 493 c.c.
In conseguenza di quanto sopra, un ulteriore creditore del de cuius agiva in giudizio al fine di far accertare la decadenza degli eredi dal beneficio di inventario proprio in virtù della sottoscrizione della suddetta transazione in assenza dell’autorizzazione giudiziale.
L’attore, in particolare, asseriva che la transazione fosse stata stipulata in danno dei creditori in quanto aveva comportato la rinuncia alle spese giudiziali che sarebbero state liquidate in favore dell’eredità se gli eredi non avessero transatto la controversia e il giudizio si fosse concluso con esito positivo.
Come noto, la decadenza dal beneficio dell’inventario comporta la confusione tra il patrimonio personale dell’erede e il patrimonio ereditario con la conseguenza che l’erede è obbligato al pagamento dei debiti ereditari con tutti i propri beni presenti e futuri.
L’attore, che vantava un credito molto consistente nei confronti del de cuius, chiedeva quindi la condanna degli eredi al pagamento anche con denaro proprio, previa revoca dei trust nei quali medio tempore gli eredi avevano segregato i propri beni personali.
La domanda veniva accolta dai giudici di merito, la Suprema Corte, al contrario, decideva di cassare la sentenza emessa dalla Corte di Appello sulla base di una serie argomentazioni che in questa sede è opportuno esaminare in quanto offrono interessanti spunti di riflessione sull’istituto dell’accettazione beneficiata dell’eredità.
In primo luogo, la Suprema Corte ricostruisce la ratio dell’art. 493 c.c., la norma che impone l’autorizzazione del giudice in caso di alienazione, sottoposizione a pegno o ipoteca dei beni ereditari, o transazione avente ad oggetto i beni ereditari a pena di decadenza dal beneficio di inventario.
Nel dettaglio si osserva che lo scopo della norma è quello di conservare la garanzia patrimoniale generica dei creditori e dei legatari del de cuius. L’attivo e il passivo ereditario devono essere determinati al momento dell’apertura della successione, ne deriva che i crediti non ancora attuali ma meramente potenziali non possono essere considerati nell’attivo ereditario e tra questi rientra, appunto, il credito eventuale per il rimborso delle spese legali, oggetto di giudizio.
Si precisa, inoltre, come la transazione sottoscritta tra gli eredi e il professionista sia stata pagata con denaro personale degli eredi, per l’effetto l’attivo ereditario non è stato ridotto a causa della transazione, al contrario, l’eredità è stata liberata da una passività potenziale che sarebbe divenuta attuale nel caso in cui il giudizio fosse proseguito e si fosse concluso con la soccombenza degli eredi.
La Corte di Cassazione chiarisce, richiamando anche precedenti giurisprudenziali in tal senso, che la stipula di una transazione e gli altri atti di cui all’art. 493 c.c., richiedono l’autorizzazione del giudice solo nel caso in cui eccedano l’ordinaria amministrazione, nel caso di specie, l’assenza dell’autorizzazione è giustificata dall’evidente convenienza della transazione per gli interessi dei creditori e dei legatari.
In sostanza, la denominazione formale dell’atto non è sufficiente ai fini della necessità dell’autorizzazione ma è necessario indagare la natura ordinaria o straordinaria dell’atto stesso, in questo modo è possibile concludere che l’atto sia soggetto ad autorizzazione nel solo caso in cui vi sia pericolo di diminuzione della garanzia patrimoniale per i creditori e per i legatari.
In conclusione e in un’ottica di bilanciamento tra vantaggi e svantaggi, la transazione oggetto del giudizio non è idonea a pregiudicare gli interessi dei creditori e dei legatari in quanto gli eredi hanno ottenuto la riduzione delle pretese del professionista creditore, adempiendo in ogni caso al minor debito con risorse personali.
Nel cassare con rinvio la sentenza della Corte d’Appello, i Giudici della Corte di Cassazione formulano il seguente principio di diritto:
“in caso di transazione intervenuta tra un creditore dell'eredità e gli eredi che abbiano accettato con beneficio di inventario, ove la transazione abbia previsto il riconoscimento del debito ereditario, in misura inferiore a quella richiesta in via giudiziale, con l'impegno assunto dagli eredi di far fronte all'obbligazione con denaro proprio, deve escludersi che la transazione debba essere previamente autorizzata dal giudice ex art. 493 c.c., senza che rilevi in senso contrario, ed in presenza di accordo tra le parti circa la compensazione delle spese del giudizio transatto, l'ipotetica rinuncia al credito per le spese di lite che sarebbero spettate al de cuius nel giudizio oggetto di transazione, trattandosi di ragione creditoria del tutto ipotetica (essendo correlata alla valutazione di fondatezza della difesa del de cuius) e venuta meno proprio in ragione della transazione, il cui assetto regolamentare è destinato a sostituirsi a quello dedotto nella causa transatta.”
Un aspetto della sentenza su cui è opportuno soffermarsi è quello relativo al trust.
Come anticipato, l’attore oltre alla declaratoria di decadenza dal beneficio di inventario chiedeva altresì la revoca dei trust istituiti dagli eredi e aventi ad oggetto i loro beni personali, in modo da poterli aggredire e così soddisfare il proprio credito.
In primo e in secondo grado i Giudici avevano dichiarato i suddetti trust nulli in quanto, in assenza di una normativa nazionale di disciplina del trust e sulla scorta delle previsioni della Convenzione dell’Aja del 1985, non sono riconoscibili i trust privi di una valenza transazionale, ed in questo caso il trust doveva considerarsi totalmente interno. Stante la nullità dei trust, anche gli atti di trasferimento dei beni immobili in trust dovevano considerarsi nulli perché privi di un’idonea causa giustificativa. Concludevano quindi affermando che il trust interno contrasta con il principio del numerus clausus dei diritti reali e con il principio della garanzia patrimoniale generica di cui all’art. 2740 c.c.
Sul punto la Corte di Cassazione osserva come l’attore non avesse mai ricondotto l’invalidità dei trust alla questione dell’inammissibilità dei trust interni, di conseguenza i giudici di merito, dichiarando la nullità dei trust senza provocare il contraddittorio sul punto, avevano violato il diritto di difesa nonché il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato.
Al di là delle questioni processuali, la Suprema Corte smentisce quanto sostenuto dai Giudici di merito e ricorda che allo stato attuale la giurisprudenza sia di merito che di legittimità ha ammesso la figura del trust interno.
A ciò si aggiunga che è inesatto considerare il trust un istituto privo di copertura normativa se solo si consideri l’art. 2645 ter sui vincoli di destinazione, il fondo patrimoniale, i fondi speciali per la previdenza e l’assistenza e la generalizzata ammissione del contratto di affidamento fiduciario a seguito dell’introduzione della legge n. 112 del 2016.
Si tratta di istituti affini al trust di diritto anglosassone, il cui unico vero limite nell’ordinamento giuridico italiano è che lo stesso miri a realizzare interessi meritevoli di tutela.
La Suprema Corte non ha approfondito ulteriormente la questione in quanto, avendo escluso che gli eredi fossero decaduti dal beneficio dell’inventario, ha ritenuto ancora integra la separazione tra il patrimonio degli eredi e il patrimonio ereditario. Per l’effetto l’attore non era legittimato a sindacare la validità dei trust e dei relativi atti di trasferimento, non potendo in ogni caso aggredire i beni personali degli eredi.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte, si impone una seria riflessione sullo stato dell’integrazione del diritto dei trust con il nostro ordinamento giuridico.
Considerando che le sentenze di merito sono piuttosto recenti (2015 per il primo grado e 2016 per il secondo grado), appaiono sorprendenti le motivazioni addotte a sostegno della nullità dei trust.
In altri termini, il trust è ancora percepito come un istituto alieno.
Invero, a parere di chi scrive l’integrazione del trust con il diritto interno è un fenomeno in costante progressione e difficilmente arrestabile, nonostante le resistenze tutt’oggi poste da alcuni operatori del diritto.