La rinuncia al credito da parte dei soci eredi per finanziare la società sconta l’applicazione della ritenuta

29 Luglio 2022

La rinuncia da parte dei soci eredi al credito vantato dal de cuius verso la società, con mantenimento delle somme nel patrimonio netto, esplicita la volontà degli stessi di patrimonializzare la società, con conseguente assoggettamento a ritenuta del relativo ammontare ai sensi dell’art. 25 Dpr n. 600/73. Ad affermarlo, la Suprema Corte con l’ordinanza n. 22609 del 19 luglio 2022.

Nel caso in esame, il credito atteneva al trattamento di fine mandato (“TFM”) spettante all’amministratore della società, deceduto nel 2012. In tale posizione creditoria subentravano gli eredi soci della società, i quali rinunciavano al suddetto credito con conseguente mantenimento dell’importo nel patrimonio sociale. Contabilmente, la somma caduta in successione transitava, dapprima, da fondo TFM a debito vs eredi e successivamente al conto “soci/vs finanziamento”.

Ciò posto, l’Agenzia delle Entrate (“AdE”) notificava alla società contribuente l’omessa applicazione della ritenuta sul trattamento di fine mandato (“TFM”) spettante all’amministratore deceduto. In particolare, secondo l’Ufficio si configurava una ipotesi di “avvenuto incasso giuridico” da parte dei soci eredi, il quale farebbe sorgere a carico della società l’obbligo di applicare la ritenuta a titolo d’imposta.

La società impugnava l’atto impositivo innanzi la Commissione Tributaria Provinciale (“CTP”), la quale accoglieva parzialmente il ricorso. La Commissione Tributaria Regionale (“CTR”), invece, respingeva in toto l’appello della contribuente condividendo quanto sostenuto dall’Ufficio nell’avviso di accertamento.

La Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla questione, respingeva il ricorso della società. A parere dei giudici, il giroconto contabile da Fondo TFM amministratore a debito/vs eredi non costituisce – come sostenuto dalla società ricorrente - il solo effetto legale del trasferimento iure successionis del credito dal de cuius ai suoi eredi, ma un’operazione economico-finanziaria diretta a consentire l’incasso della somma caduta in successione e il suo trasferimento nel patrimonio sociale a titolo di capitale con inserimento della stessa quale posta di patrimonio.

In altri termini, a fronte della citata scrittura contabile la società d’accordo con gli eredi rinunciatari ha conseguito un finanziamento a proprio favore. Ciò in quanto, stante la mancata erogazione del suddetto credito decorsi 5 anni dal decesso, si è realizzata la trasformazione della posta da credito verso gli eredi in una voce di patrimonio netto costituente patrimonializzazione della società da parte degli eredi medesimi.

L’esercizio del diritto alla rinuncia al credito si fonderebbe, infatti, sulla fictio iuris del conseguimento dello stesso, con la conseguenza che il suddetto credito sebbene non materialmente incassato, è stato, de facto, “utilizzato” dai soci che attraverso la rinuncia hanno finanziato la società.

Ciò posto, la Suprema Corte – condividendo le statuizioni della CTR - ha affermato la sussistenza a carico della società dell’obbligo di applicazione della ritenuta sull’ammontare del credito rinunciato (i.e. finanziamento) ex art. 25 Dpr n. 600/73, diversamente “si permetterebbe alla società di beneficiare di accantonamenti fiscalmente dedotti nel corso di singoli periodi di imposta che non scontano alcuna imposizione fiscale, nonostante producano l’effetto ultimo di incrementare il costo della partecipazione”.

Per completezza, si rileva che la Suprema Corte[1] in passato aveva già riconosciuto la valenza della c.d. “teoria dell’incasso giuridico” sostenuta dall’Amministrazione finanziaria nel caso di specie.

In passato, i giudici di legittimità hanno infatti chiarito che in sede di determinazione del reddito d’impresa, l’art. 55 (poi art. 88) TUIR che esclude debbano considerarsi sopravvenienze attive le rinunce ai crediti operate dai soci verso la società, deve essere letto in combinato disposto con gli artt. 61, c. 5 (poi art. 94, c. 6) e 66, c. 5, (poi 101, c.7) Tuir.

L’art. 55 citato, infatti, non vale ad alterare in capo ai soci il regime fiscale del credito rinunciato, per cui “ove si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, i quali sebbene materialmente non incassati, siano, mediante la rinuncia, comunque conseguite ed utilizzati, sussiste l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione (…) della ritenuta fiscale, cui è tenuta la società quale sostituto d’imposta”.[2]


[1] Cass. n. 26842 del 2014; Cass. n. 2057 del 2020

[2] Cass. n. 1335 del 2016, Cass. 7636 del 2017

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