Non può essere esclusa al contribuente la possibilità di richiedere a rimborso le somme versate a titolo di irpef in eccesso rispetto a quanto spetterebbe applicando il Regime agevolativo previsto per gli Impatriati, anche nel caso in cui tale richiesta non è stata formalizzata secondo le modalità ordinarie previste nelle circolari dell’Agenzia se vigeva al momento del sorgere del diritto incertezza circa la sussistenza dei requisiti per l’agevolazione La sentenza n. 4023/2022 in commento, resa dalla Corte di Giustizia di II grado della Lombardia, appare interessante nelle sue conclusioni anche in considerazione della scarsa giurisprudenza fino ad ora edita in materia di agevolazione c.d. “Impatriati”, disciplinata dall’articolo 16 del D.Lgs. 147/2015 e più volte oggetto di interventi legislativi modificativi[1]. Dalla lettura della sintetica esposizione fattuale presente in sentenza, possono sintetizzarsi i fatti di causa come segue. Un contribuente impugnava il silenzio-rifiuto opposto dall’agenzia delle Entrate ad una istanza di rimborso proposta dallo stesso al fine di ottenere la restituzione delle maggiori somme versate a titolo di Irpef per l’anno 2017. La ragione di tale richiesta muoveva dall’intervenuta risposta ad una istanza di interpello precedentemente inviata dal Contribuente, con cui l’Agenzia riconosceva la possibilità di fruire del regime agevolativo per i lavoratori impatriati, previsto all’articolo 16, c.2 del D.Lgs. n. 147/2015, per i redditi percepiti a partire dal periodo di imposta 2017 (la risposta positiva all’istanza del contribuente, veniva resa probabilmente in un momento temporalmente successivo a quello di presentazione della Dichiarazione fiscale relativa alla predetta annualità di imposta – n.d.A.). Sennonché l’Agenzia, in sede costituzione nel giudizio introdotto dalla parte privata non eccepiva la carenza dei requisiti per la spettanza dell’agevolazione in capo al contribuente, ma rilevava esclusivamente la carenza di legittimità dello strumento con cui il Contribuente ha fatto valere la propria pretesa creditoria. L’Agenzia, infatti, richiamando propri pronunciamenti di prassi (tra cui la Circolare n. 17/E/2017 e la Circolare n. 33/E/2020) evidenziava come non venisse contemplata in essi in alcun modo l’istanza di rimborso come modalità di recupero dell’agevolazione senza “(…) una previa dichiarazione al datore di lavoro (nella veste di sostituto di imposta) oppure mediante una indicazione nella dichiarazione dei redditi del reddito ridotto del 50%”. In altre parole, secondo l’Ufficio, una volta decorsi i termini per la presentazione della dichiarazione fiscale relativa all’annualità oggetto di agevolazione (fino al più ampio termine per la presentazione di dichiarazione c.d. “tardiva” entro i 90 gg.) o in mancanza di una dichiarazione con cui richiedere al proprio datore di lavoro di intervenire all’origine fonte riducendo le ritenute applicate, verrebbero meno ulteriori strumenti in capo al contribuente per beneficiare di una agevolazione diversamente spettante in punto di diritto. Già in prime cure, tuttavia, il Collegio giudicante adito, accogliendo le doglianze della parte ricorrente privata aveva riconosciuto il diritto al rimborso, evidenziando come di fronte all’oggettivo riconoscimento del beneficio fiscale già a far data dal 2017 doveva essere riconosciuto in ogni caso in capo al Contribuente il diritto all’ottenimento delle somme astrattamente spettanti. L’Agenzia tuttavia impugnava la sentenza di prime cure, eccependo un presunto contrasto della stessa con le indicazioni di prassi di cui alla Circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020 (par. 6), dalla stessa resa, e nella quale veniva precisato che “nelle ipotesi in cui l’impatriato non abbia formulato alcuna richiesta al proprio datore di lavoro nel periodo di imposta in cui è avvenuto l’impatrio, né ne abbia dato evidenza nelle relative dichiarazioni dei redditi, i cui termini di presentazione risultano scaduti, per detti periodi di imposta, l’accesso al regime è da considerarsi precluso”. La Corte di giustizia di secondo grado adita, pur riconoscendo la correttezza in termini generali del principio rilevato dall’Agenzia secondo cui, per godere di un beneficio fiscale, il contribuente ha l’onere di farlo valere entro i termini previsti per legge e non successivamente, ha tuttavia evidenziato come nel caso specifico affrontato le peculiarità fossero tali da non poter escludere la valida utilizzabilità dello strumento dell’istanza di rimborso. Nel caso posto al vaglio del Collegio meneghino, infatti, il Contribuente in attesa della risposta all’istanza di interpello presentata, aveva deciso di non far emergere la presenza del beneficio agevolativo tramite la dichiarazione fiscale o tramite richiesta al sostituto di imposta: ciò in considerazione dell’incertezza sulla sussistenza o meno dei requisiti per l’agevolazione medesima[2]. Solo a seguito della risposta positiva all’istanza di interpello il contribuente appariva nelle condizioni per attivarsi legittimamente per richiedere il credito da agevolazione per l’annualità “sospesa”. Secondo la Corte adita, infatti, dinanzi ad una situazione di temporanea incertezza normativa sulla applicabilità o meno dell’agevolazione nel momento in cui il contribuente avrebbe dovuto usufruire del beneficio fiscale, escludere la possibilità di avvalersi del diritto al rimborso si porrebbe in contrasto con il generale principio vigente nel nostro ordinamento sull’indebito oggettivo che, nel diritto tributario, opera purché venga rispettato il termine decadenziale di due anni per la presentazione dell’istanza di rimborso. Ciò, a maggior ragione, secondo il Collegio adito, in quanto “il credito nascente da istanza di rimborso non può essere precluso – in assenza di un specifico divieto normativo – da una indicazione contenuta in una circolare”. A parere di chi scrive la sentenza in commento merita apprezzamento nel passaggio in cui viene ribadita, tra le altre cose, l’assenza di vincolatività di un documento di prassi che, come ricordato ex multis da Cass. 10 marzo 2017, n. 6185[3], non deve vincolare né il contribuente, né tantomeno il Giudice, non costituendo fonte di diritto. Allo stesso modo, un ulteriore spunto di riflessione discende dall’inciso per cui, in pratica, viene chiarita l’impossibilità, in capo all’A.F. di porre vincoli applicativi ad una disposizione normativa nel caso in cui tali vincoli non siano desumibili dal dato normativo medesimo. Da ciò potrebbe discendere una riflessione con riguardo alla rigida posizione assunta dall’Agenzia in merito all’estendibilità del regime Impatriati nel caso di lavoratori distaccati all’estero (sul punto si veda nota sub 2) solo in presenza di rigidi e specifici elementi che non sono rinvenibili nel dato normativo in parola (i.e. l’articolo 16, citato) né dalle relazioni illustrative che ne hanno accompagnato l’iter legislativo. [1] Che, si ricorda, nel tempo sono intervenuti relativamente alla quota di reddito imponibile agevolabile, cosi come dei requisiti soggettivi per il riconoscimento dell’agevolazione fiscale. [2] L’incertezza nel caso del contribuente, come sembra emergere dalla Sentenza in commento, si sostanziava in un dubbio attinente alla applicabilità dell’agevolazione anche in una situazione di lavoratori rientranti in Italia dopo un distaccamento all’estero per una società facente parte dello stesso gruppo societario. La tematica riguardante l’applicabilità dell’agevolazione anche nei casi di distaccamento ha creato molta incertezza tra gli operatori nei primi anni di applicazione pratica dell’agevolazione ex art. 16 del D.Lgs. n. 147/2015, in ragione di posizioni ondivaghe assunte dalla prassi dell’Amministrazione Finanziaria sul tema. Dopo una iniziale posizione di totale chiusura (con la Circolare n. 17/E del 2017, l’Agenzia escludeva categoricamente l’utilizzo dell’agevolazione in casi di lavoratori rientrati da distaccamento), infatti, l’Agenzia ha poi parzialmente corretto il tiro con la Ris. N. 76/E del 5 ottobre 2018 che ha, invece, aperto a tale possibilità a “(…) specifiche ipotesi in cui il rientro in Italia non sia conseguenza della naturale scadenza del distacco ma sia determinato da altri elementi funzionali alla ratio della norma agevolativa (…)”. Tali conclusioni sono state poi riprese anche nella Circolare n. 33/E del 28 dicembre 2020, sopra citata. Con tale ultima Circolare, però, l’Agenzia è nuovamente tornata a circoscrivere l’applicazione dell’agevolazione in casi di distaccamento, pretendendo la presenza di elementi fattuali documentali atti a dimostrare la cesura netta tra l’esperienza lavorativa svolta all’estero dal lavoratore e quella avviata con il rientro nel territorio nazionale (quali ad esempio, la sottoscrizione di un nuovo contratto, l’utilizzo di tutte le ferie pregresse connesse al precedente contratto, etc.). [3] Secondo il filone giurisprudenziale di cui fa parte la Sentenza citata, diversamente opinando si arriverebbe all’errata e illegittima conclusione per cui, affermando che la prassi amministrativa sia vincolante per i giudici o per il contribuente, equivarrebbe a riconoscere all’Amministrazione Finanziaria un potere normativo in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva di legge di cui all’art. 23 della Cost. Nello stesso senso, peraltro, si erano già pronunciate le SS.UU. con la sentenza n. 23031 del 2 novembre 2007.