Trattamento delle partecipazioni in società di capitali in caso di comunione legale dei coniugi

17 Gennaio 2023

Dal punto di vista civilistico, le partecipazioni in società di capitali sono da includere nella comunione legale dei coniugi, ai quali spetterà una quota ideale del diritto di proprietà sulla partecipazione, che non è riferibile a una porzione individuata della stessa, ma che consente ad entrambi di esercitare il proprio diritto sull’intera quota.
Detto principio è stato stabilito dalla Corte di Cassazione nella sentenza 18 settembre 2014, n. 19689, che rappresenta l’esito di un lungo dibattito dottrinale e giurisprudenziale in ordine all’inclusione o meno dei diritti di credito nell’ambito della comunione legale ai sensi dell’art. 177 cod. civ..

Parte della dottrina, contraria all’inclusione dei diritti di credito nella comunione legale, ha sottolineato: la natura personale e relativa dei medesimi; l’incerta possibilità di qualificare il credito come “bene”; nonché il suo carattere strumentale alla futura acquisizione.
Inoltre, con specifico riferimento alle partecipazioni societarie, si è distinto tra partecipazioni in società di capitali e partecipazioni in società di persone: le prime sono state incluse nella comunione legale, dal momento che nelle stesse risulta predominante la finalità di investimento del capitale; le seconde, invece, costituirebbero beni personali, come tali esclusi dalla comunione legale ai sensi dell’art. 179, comma 1, lett. d) cod. civ., in quanto “beni che servono all’esercizio della professione del coniuge”.

Il predetto orientamento dottrinale è stato disatteso dalla giurisprudenza di legittimità. Già con la sentenza 2 febbraio 2009, n. 2569, la Suprema Corte di Cassazione ha affermato il principio secondo cui le partecipazioni societarie “rientrano tra gli acquisti che, a norma dell’art. 177, lett. a) c.c., costituiscono oggetto di comunione legale tra i coniugi, anche se effettuati durante il matrimonio ad opera di uno solo di essi, e non sono beni personali, ove non ricorra una delle ipotesi previste dall’art. 179 c.c.”.

Più di recente, la Corte di Cassazione è tornata sul tema con la sentenza 18 settembre 2014, n. 19689, confermando il suo precedente orientamento.
Con riferimento ai fatti di causa, il contenzioso riguarda una moglie che cita innanzi al Tribunale di Foggia il marito e le tre cognate. Marito e moglie erano comproprietari in regime di comunione legale di dieci libretti di risparmio al portatore. In occasione del passaggio dal regime di comunione legale dei beni al regime di separazione, la moglie aveva appreso che il marito aveva donato, senza il consenso di lei, due libretti di risparmio a ciascuna delle tre sorelle. Pertanto, la moglie chiede al Tribunale di dichiarare la nullità dell’atto di donazione e di condannare il marito e le cognate alla restituzione di quanto indebitamente donato. Si sono costituiti il marito e le cognate sostenendo che le somme in questione facevano parte della comunione legale dei coniugi, cosicché il marito poteva disporne interamente, salva la possibilità della moglie di agire soltanto per la ricostituzione della comunione nello stato quo ante.

Il Tribunale di Foggia e la Corte d’Appello di Bari rigettano la domanda dell’attrice, affermando che il diritto di credito in questione era entrato a far parte della comunione legale dei coniugi, che, a differenza di quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto tutti i beni della comunione. L’attrice, inoltre, non ha proposto l’unica azione esperibile nel caso di atti di amministrazione straordinaria del patrimonio comune compiuti senza il consenso dell’altro coniuge, ossia la domanda di ricostituzione della comunione legale. La moglie propone ricorso in Cassazione.

Le pronunce dei giudici di merito sono state confermate dalla Corte di Cassazione. La Suprema Corte tratta anzitutto il tema dell’inclusione delle partecipazioni societarie all’interno della comunione legale e poi la questione delle conseguenze dell’atto di disposizione straordinaria dei beni della comunione senza il consenso dell’altro coniuge.
Secondo la ricorrente le azioni di società cooperative acquistate da uno dei coniugi durante il matrimonio non possono cadere in comunione legale dal momento che si tratta di beni strumentali, il cui acquisto non produce un immediato incremento del patrimonio dell’acquirente, ma è soltanto il presupposto per il conseguimento di una diversa utilità economica. Di conseguenza, gli atti dispositivi di tali beni, in difetto di autorizzazione del loro titolare, dovrebbero ritenersi illegittimi.
La Suprema Corte rigetta il motivo di ricorso, sostenendo che è ormai principio consolidato dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. anche Cass. Civ., Sez. I, 27 maggio 1999, n. 5172) quello secondo cui i titoli di partecipazione azionaria acquistati, in costanza di matrimonio, da uno solo dei coniugi ed allo stesso intestati, sono suscettibili di essere compresi nel regime della comunione legale contemplata dall’art. 177, comma 1, lett. a) cod. civ. (ossia tra gli “acquisti compiuti dai due coniugi insieme o separatamente durante il matrimonio, ad esclusione di quelli relativi ai beni personali”). Tale principio deve ritenersi applicabile anche alla partecipazione alle cooperative tutte le volte in cui il carattere personale della partecipazione non sia recessivo di fronte al dato sostanziale preminente dell’estraneità del socio all’attività che costituisce l’oggetto sociale della cooperativa.

Accertata, dunque, l’inclusione nella comunione legale delle partecipazioni societarie acquisite dalla moglie nel corso del matrimonio, la Suprema Corte rileva che (come chiarito da Cass. Civ., Sez. I, 7 marzo 2006, n. 4890), la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza della comunione ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto tutti i beni di essa. Ne consegue che nei rapporti con i terzi ciascun coniuge può disporre dell’intero bene comune, ponendosi la necessità del consenso dell’altro coniuge soltanto per gli atti di straordinaria amministrazione ai sensi dell’art. 180, comma 2, cod. civ.. In particolare, ove si tratti di beni immobili o beni mobili registrati, l’atto dispositivo eccedente l’ordinaria amministrazione compiuto senza il consenso dell’altro coniuge può essere annullato dal giudice su domanda del coniuge dissenziente (ex art. 184, comma 1, cod. civ.). Invece, l’atto dispositivo di straordinaria amministrazione avente ad oggetto beni mobili e non registrati compiuto senza il necessario consenso dell’altro coniuge non è annullabile, ma è pienamente valido ed efficace, fermo così il diritto acquisito dal terzo. In tal caso, il coniuge dissenziente potrà soltanto chiedere che l’altro coniuge venga condannato alla ricostituzione della comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione (ex art. 184, comma 3, cod. civ.).

Per i motivi sopra esposti, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso proposto dalla moglie e conferma le decisioni dei giudici di merito. Le azioni acquistate dalla moglie durante il matrimonio fanno parte della comunione legale di cui all’art. 177 cod. civ., e l’atto di disposizione di tali azioni eccedente l’ordinaria amministrazione, ove compiuto senza il consenso dell’altro coniuge, non può essere dichiarato nullo o annullabile dal giudice, avendo ad oggetto beni mobili (le azioni). La moglie avrebbe dovuto, semmai, chiedere al giudice di condannare il marito alla ricostituzione della comunione nello stato in cui si trovava prima del compimento dell’atto o, qualora ciò non fosse possibile, di pagare alla moglie l’equivalente del bene alienato.

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