La natura obbligatoria della partecipazione del familiare all’impresa familiare

28 Giugno 2024

Con la sentenza n. 15810 del 6 giugno 2024, la Suprema Corte ha colto l’occasione per precisare la natura e le caratteristiche della partecipazione dei familiari all’impresa familiare di cui all’art. 230 bis del Codice Civile.

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La vicenda trae origine da una controversia insorta tra marito e moglie, unici partecipanti all’impresa familiare, in merito alla ripartizione degli utili prodotti in costanza dell’impresa medesima.

Nel dettaglio, la moglie aveva citato in giudizio il marito al fine di ottenere la diretta attribuzione di una quota di proprietà degli immobili e delle partecipazioni acquistati dal marito con gli utili ricavati dalla gestione dell’impresa familiare.

Il giudice di merito, sia in primo che in secondo grado, aveva accolto la domanda di parte attrice, argomentando che i coniugi non avevano fonti di reddito diverse dall’impresa familiare e, nel periodo di esercizio dell’impresa familiare, gli acquisti di immobili effettuati dalla moglie erano notevolmente inferiori a quelli effettuati dal marito. Dalla suddetta circostanza il giudice inferiva che il marito non avesse distribuito gli utili in favore della moglie, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro dalla stessa prestato, stimato nel corso del giudizio nella misura del 40%.

Per effetto di tutto quanto sopra, il giudice di merito dichiarava la moglie comproprietaria dei beni acquistati dal marito con gli utili che essa stessa aveva contribuito a produrre. La moglie veniva, quindi, dichiarata comproprietaria con il marito, nella misura del 40%, degli immobili da quest’ultimo acquistati, attribuendole, altresì, una percentuale delle quote di una Snc, pure acquistate dal marito in costanza di impresa familiare, oltre al riconoscimento di una somma pari a 160.000,00 Euro a titolo di incremento di valore dell’azienda.

La pronuncia di secondo grado veniva impugnata dal marito con ricorso per Cassazione, nelle more del giudizio interveniva il decesso di quest’ultimo, il figlio subentrava nella qualità di ricorrente e il giudizio proseguiva in quanto comunque persistente l’interesse delle parti ad ottenere una pronuncia.

Con il primo motivo di ricorso il marito contestava la sentenza impugnata per aver erroneamente ritenuto non provata la distribuzione degli utili in favore della moglie. Dagli atti, infatti, sarebbero emersi diversi elementi dimostrativi dell’avvenuta distribuzione.

La Suprema Corte ha ritenuto inammissibile il suddetto motivo di ricorso, in quanto l’onere della prova dell’avventa distribuzione gravava sul marito ma, nel giudizio di merito, era stato assolto solo in minima parte. Né a tal fine potevano assumere valenza probatoria le dichiarazioni dei redditi della moglie, trattandosi di un’imputazione a fini meramente fiscali degli utili, senza costituire prova dell’effettiva corresponsione degli stessi.

Con il secondo motivo di ricorso il ricorrente censurava la sentenza impugnata nella parte in cui accoglieva la domanda di trasferimento dei diritti immobiliari e delle quote. In base alla prospettazione dell’originario ricorrente, infatti, la moglie avrebbe potuto vantare soltanto un diritto di credito, senza poter invece subentrare nella titolarità dei beni acquistati personalmente dal marito.

Il motivo diventa per i giudici della Suprema Corte occasione di riflessione sull’origine e sulla funzione dell’istituto dell’impresa familiare.

L’art. 230 bis è stato introdotto con la riforma del diritto di famiglia, L. n. 151 del 1975, con la finalità di tutelare il familiare che presti in modo continuativo la propria attività di lavoro in famiglia o nell’impresa familiare. Per familiare la legge intende il coniuge, il parente entro il terzo grado o l’affine entro il secondo grado dell’imprenditore.

Al ricorrere dei suddetti requisiti, il familiare ha il diritto al mantenimento, secondo la condizione patrimoniale della famiglia, il diritto alla partecipazione agli utili e ai beni acquistati con essi, nonché agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento, il tutto in proporzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato.

La scarna disciplina dettata per l’istituto prevede anche che le decisioni in merito all’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle relative alla gestione straordinaria dell’impresa familiare siano adottate a maggioranza dei partecipanti all’impresa familiare.

Sin dall’entrata in vigore della riforma del diritto di famiglia, l’impresa familiare ha suscitato diverse perplessità soprattutto in relazione alla configurabilità dell’istituto quale impresa collettiva o impresa individuale.

I fautori della tesi secondo la quale l’impresa familiare sarebbe un’impresa collettiva sostengono che si tratterebbe di un’associazione di persone, legate da un vincolo di parentela o di affinità, con lo scopo di esercitare una comune attività imprenditoriale. Il corollario della tesi suesposta è che la qualità di imprenditore dovrebbe ritenersi estesa a tutti i familiari partecipanti, con i connessi oneri, responsabilità e rischi anche in caso di fallimento dell’impresa.

Di tutt’altro avviso è la tesi secondo cui l’impresa familiare sarebbe un’impresa individuale, di conseguenza, la qualità di imprenditore sarebbe assunta dal solo titolare e i familiari, nella loro qualità di collaboratori, parteciperebbero alla gestione dell’impresa familiare solo nei rapporti interni. A sostegno di questa seconda tesi sono invocate ragioni pratiche legate alla tutela dei terzi, ma soprattutto la finalità originaria dell’istituto, ovvero la tutela del lavoro dei familiari, che verrebbe compromessa dall’estensione della qualità di imprenditore a tutti i compartecipi.

Quest’ultima tesi sembrerebbe quella maggiormente condivisa anche dalla giurisprudenza di legittimità.

L’impresa familiare avrebbe quindi natura individuale e, pertanto, apparterrebbe al solo al titolare della stessa. L’istituto in esame non sarebbe riconducibile ad alcuna altra forma societaria, non prevede una partecipazione per quote, uguali o diverse, ma l’unico criterio di partecipazione agli utili e agli incrementi è dato dalla quantità e qualità del lavoro prestato dal familiare.

Alla morte dell’imprenditore, poi, non troverà applicazione la disciplina di cui all’art. 2284 c.c., con conseguente scioglimento del rapporto sociale limitatamente al de cuius e liquidazione della quota agli eredi. In caso di morte dell’imprenditore, l’impresa familiare cessa e i relativi beni cadono interamente nell’asse ereditario del de cuius. I familiari potranno vantare soltanto un diritto di credito commisurato agli utili, ai beni e agli incrementi già maturati al momento dell’apertura della successione.

Il contrasto dottrinale e giurisprudenziale sulla natura collettiva o individuale è collegato al tema della natura reale o obbligatoria della partecipazione dei familiari all’impresa familiare ed è dirimente per la decisione sull’accoglimento o sul rigetto del secondo motivo di ricorso in esame.

I giudici di legittimità precisano che nella giurisprudenza della Suprema Corte si rinvengono precedenti sia nel senso della natura reale della partecipazione sia nel senso della natura obbligatoria.

Con la sentenza in commento, la Suprema Corte ritiene di aderire alla tesi della natura obbligatoria della partecipazione, per l’effetto, i familiari compartecipi non sono titolari di una quota dell’azienda ma hanno soltanto diritto ad una remunerazione per il lavoro svolto.

In caso di morte dell’imprenditore, assumono la veste di creditori per le remunerazioni maturate sino al momento dell’apertura della successione, detraibili dall’attivo dell’asse ereditario.

D’altra parte, la natura reale della partecipazione condurrebbe all’instaurarsi di una sorta di comunione dei beni.

In altri termini, seguendo l’impostazione della natura reale, l’effetto pratico sarebbe che gli acquisti dell’imprenditore ipso iure sarebbero effettuati in rappresentanza di tutti i compartecipi, che ne diventerebbero quindi contitolari. Il meccanismo sarebbe farraginoso e rischioso per la tutela dei terzi e tradirebbe la natura dinamica dell’impresa familiare in contrapposizione alla natura statica della comunione dei beni.

In conclusione, la Suprema Corte considera la tesi della natura obbligatoria della partecipazione quella più convincente e rispettosa della ratio dell’istituto e della lettera della legge, a tal fine, richiama quanto affermato dalle Sezioni Unite (Sez. Un. 15899/22) in tema di comunione de residuo: al coniuge dell’imprenditore non spetta alcun diritto di comproprietà sui beni aziendali che cadono in comunione de residuo, ma un mero diritto di credito pari alla metà del valore economico dei beni stessi, al netto delle passività. Ciò si spiega anche per esigenze di tutela dei creditori dell’imprenditore che non possono di certo vedere ridotte le loro garanzie del 50% a causa dello scioglimento della comunione legale tra coniugi. Applicando le medesime coordinate di cui sopra al caso dello scioglimento dell’impresa familiare, la Suprema Corte accoglie il motivo di ricorso e cassa la sentenza impugnata nella parte in cui dispone il trasferimento dei diritti immobiliari e le quote in favore della moglie, rinviando alla Corte d’Appello in diversa composizione per il riesame della domanda, affinché faccia applicazione del principio di diritto secondo cui: la pretesa azionata da un compartecipe nell’ambito dell’impresa familiare sugli acquisti effettuati dall’imprenditore, con gli utili prodotti dall’impresa, ha un contenuto obbligatorio e non reale.

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